Mai, come oggi, ritengo che la società, per la propria crescita partecipata, debba acquisire consapevolezza dell’importanza del ruolo della donna quale donna. La vita della famiglia nell’economia preindustriale sente il peso del lavoro domestico e, in tal senso, anche le donne e il loro lavoro sono inserite nella vita della città; la civiltà industriale, attraverso tutti i processi che hanno portato alla nostra situazione attuale, riduce la famiglia al modello mononucleare e quando la donna non può (o non vuole) sobbarcarsi un doppio lavoro, la lega ai suoi compiti di casalinga; in questa funzione la famiglia diviene una specie di mito in cui la donna funge da sacerdotessa[1]. L’eccessiva valutazione dello Stato svaluta, a un certo punto, la famiglia, che si isola e diventa fine a se stessa, senza svolgere più la funzione di luogo di crescita totale dei suoi membri; rischia di diventare e diventa talvolta un concentrato di egoismi, dove la donna restringe sempre più i propri interessi e riscatta le proprie frustrazioni facendosi vittima e sentendosi «superiore» perché si sacrifica. In certi ambienti del Meridione la donna pensa di non essere amata dal marito se non è picchiata[2]; ma non è poi tanto diversa da chi, con un tantino di educazione in più, dichiara che nel matrimonio la donna deve essere mite, sottomessa, rassegnata, annullarsi se è possibile, per essere una buona moglie e una buona madre. Certo, lo so che affermazioni di questo genere sono meno frequenti, ma non del tutto scomparse, e lo si deve senz’altro al fatto che le donne sono andate a scuola e la nostra scuola non ha quasi differenziazioni di sesso, ma si deve riconoscere, anche, che molto resta da fare. La posizione subalterna, quando sgrava di responsabilità, è più comoda che penosa. Non pensare, non decidere, lasciare fare agli altri è una grande tentazione. Avrei potuto chiamare questi articoli «stalking: un delitto color rosa». Il rosa nasce dal rosso del sangue versato e dal bianco dell’impotenza. Devo ribadire la mia convinzione che oggi, più che mai, non si può e soprattutto non si deve rifiutarsi alla partecipazione: la donna è persona umana e come tale non può avere doveri né diritti diversi da quelli dell’uomo[3]. Mettere in primo piano la sua missione di madre e farne la sua sola ragione di vita, è ridurre la sua individualità alla funzione del suo sesso. E, forse, è anche questa una ragione dell’incrementare dello stalking o di reati a sfondo sessuale. Nessuno si sogna di improntare la vita del “maschio” esclusivamente alla sua paternità, e quando si educa un uomo in funzione della sua virilità si finisce spesso per farne un cultore della sua forza bruta, della violenza, del diritto del più forte, e per il quale vige una morale diversa da quella che si richiede alla donna[4].
Chi ammazza una donna non è più forte: ha solo dimostrato che non può fare a meno di lei! Buona giornata, Aniello Clemente.
[1] L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, Roma, 1991.
[2] Cf. Ginatempo, Donne al confine. Identità e corsi di vita femminile nelle città del Sud, Milano, 1994; Siebert, È femmina, però è bella. Tre generazioni di donne al Sud, Torino, 1991.
[3] M. Benedettelli, Il giudizio di eguaglianza nell’ordinamento giuridico della Comunità europea, in Pari dignità umana, Padova, 1969, 327.
[4] Cf. M. Frunzio (a cura di), Premio Zoli 2000. «Le donne pensano non sono pensate», Fondazione Zoli Quaderni n. 1/2, Napoli, 2002, 7-10.